Fuga di capitali
Francesco Guariniello: “Scelta emotiva”
5 novembre 2018
In
quest’ultimo periodo si rincorrono le voci relativamente ad una possibile
patrimoniale, scatenando le ipotesi più disparate, e le paure dei detentori di
ricchezza, che potrebbero materializzarsi principalmente attraverso prelievi
forzosi sui conti correnti o con nuove tassazioni mirate a determinate entità o
forme di patrimonio. A tal proposito può essere utile leggere le considerazioni
dell’esperto in materia Francesco Guariniello, avvocato con specializzazioni
in ambito finanziario e patrimoniale.
“Ci risiamo, dopo un’apparente periodo di tranquillità, i risparmiatori italiani sembrerebbero
aver imboccato nuovamente l’autostrada dei laghi, direzione Svizzera, per
richiedere informazioni relative ad aperture di nuovi rapporti bancari. In
altri termini, dopo gli anni della voluntary
disclosure che hanno permesso l’emersione di capitali ed in parte il loro
rientro, soprattutto dai limitrofi territori svizzeri, attualmente il trend,
potrebbe invertirsi nuovamente (a sentir la voce di operatori finanziari,
alcuni “di parte”). È bene precisare subito che in questo caso poco o nulla
rileva l’antica e deleteria “tradizione” di far espatriare capitali nazionali
all’estero in modo illegittimo, giacché la causa di questa ipotetica rinnovata
tendenza è da ricercare nell’acuirsi della crisi finanziaria del nostro Paese,
che ad oggi, non appare così profonda. Cerchiamo di fare chiarezza su alcuni
punti, che in questa sede non possono che essere affrontati molto
sinteticamente, valutando se sia proprio necessario aprire rapporti bancari
all’estero per mettere al riparo il nostro patrimonio mobiliare, tralasciando
ogni altra valutazione ed ipotesi.
È evidente che ciò che
oggi sembrerebbe indurre un investitore italiano a
porre in essere un trasferimento di capitali in Svizzera è riconducibile al
rischio Paese ed al possibile nocumento che i propri patrimoni subirebbero
dall’acuirsi di una possibile crisi finanziaria.
In sintesi il rischio qualora:1) lo scontro dialettico con l’UE sia destinato a divenire così profondo da spingere il Paese (poco importa se su pressione altrui o autonomamente) ad abbandonare la moneta unica, il c.d. “redenomination risk”;
2) la crisi si protragga per un tempo tale da mettere in difficoltà la nostra finanza pubblica così da costringere il governo italiano (chiunque esso sia in quel momento) ad adottare misure forzose per rimpinguare le casse dello Stato.
Relativamente alla prima considerazione,
premesso che ritengo altamente improbabile l’abbandono dell’area euro da
parte del nostro Paese, i nostri risparmiatori dovrebbero essere a conoscenza
(mettendo da parte l’ipotesi di un c/c in valuta estera), che il possedere,
mediante un deposito titoli, ancorché di intermediario italiano, strumenti finanziari
in euro (o diversificato in altra valuta, qualora si ipotizzi una disgregazione
totale della moneta unica), non emessi da Enti privati o pubblici nazionali (si
pensi ad una semplice sicav lussemburghese con relativa banca depositaria), in
altri termini strumenti finanziari regolati da giurisdizione non italiana, è
sufficiente per neutralizzare il rischio di ritrovare i propri asset mobiliari
ridenominati nella “nuova” lira.
D’altra parte una corretta pianificazione patrimoniale dovrebbe
consigliare di detenere quantità minima di liquidità sui c/c (ben al di sotto
dei 100mila euro, tale da essere garantiti anche qualora si dubiti della
solidità patrimoniale di qualche intermediario bancario alla luce anche del
fenomeno c.d. “doom loop”, posto che secondo dati Banca d’Italia, i titoli di
Stato italiani detenuti dal sistema bancario è pari a 372 mld di euro). Infine
ricordo, per quanto concerne il rischio di ridenominazione di valuta dei nostri
BTP (estromettendo qualunque altro ragionamento di natura economico-finanziaria),
che le emissioni dal 2012 soggiacciono alle clausole CACs e che pertanto ogni
modifica ai termini, condizioni nonché accordi dei titoli (es.
ridenominazione), dovranno essere approvate dagli obbligazionisti (si
tralasciano i particolari). Ciò per dire quindi che, anche per alcune emissioni
dei “temuti” BTP, non è così scontata un’automatica ridenominazione in lira
(con conseguente potenziale svalutazione) nell’ipotesi per ora “inverosimile”
di fuoriuscita dall’area euro.
Per quanto concerne invece il rischio del prelievo forzoso a
garanzia della “tenuta” del nostro sistema finanziario tout court inteso, il
pensiero di molti italiani corre al D.L. n. 333/1992 ed all’imposta
straordinaria del 6 per mille sui depositi bancari e postali. Oggi potrebbe
essere applicata nuovamente? Ebbene, premesso che la Corte Costituzionale con
sent. n.143/1995 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità
costituzionale sollevate dalla CTP di Roma relativo all’art. 7 del D.L.
n.333/1992, ritengo doveroso solo segnalare che, quand’anche si progettasse
qualcosa di simile al 1992, epoca quasi preistorica se confrontata
all’evoluzione dei mercati finanziari e al contempo degli stessi strumenti di
controllo e indagine in possesso delle Autorità, perché l’ipotetico
provvedimento legislativo, non rischi di violare i nostri principi
costituzionali, dovrebbe avere un’ampiezza oggettiva e soggettiva che non
dovrebbe prescindere questa volta da tutti i soggetti coinvolti ( banche
italiane ed estere), in considerazione di un’evoluzione del nostro diritto vivente
univoco nel contrastare forme di elusione fiscale, nonché di un quadro
regolamentare internazionale ormai diretto sempre più, a stringenti forme di
collaborazione tra Stati.
In sintesi, ricordo al
lettore che, ai sensi dell’art 3 del T.U.I.R. i redditi dei
soggetti passivi residenti sono assoggettati all’I.R.P.E.F. secondo il
principio del “worldwide income”, in altri termini secondo i redditi ovunque
posseduti. Laddove invece si prenda in considerazione l’ipotesi di applicazione
di un’imposta “patrimoniale” (simile al provvedimento del 1992), è bene
ricordare che già dal 2011, attraverso il D.L. n. 201/2011, il nostro
ordinamento tributario ha istituito un’imposta sul valore delle attività
finanziarie (IVAFE) detenuti all’estero dalle persone fisiche residenti nel
territorio dello Stato. Inoltre, oggi il risparmiatore italiano deve essere
consapevole che aprire un rapporto bancario in Svizzera non
costituisce più un possibile schermo per l’attività informativa e di controllo
posta in essere dal fisco italiano. Da settembre 2018 la Confederazione ha dato
attuazione all’adesione degli standard OCSE dello scambio automatico di dati
fiscali (Common Reporting Standard – CRS) con 38 Paesi tra cui l’Italia che in
tal modo potrà collaborare attraverso diversi strumenti giuridici:
1) “richieste di gruppo” o isolate in base a quanto previsto dall’articolo 27
della Convenzione bilaterale Italia –Svizzera sulle doppie imposizioni
modificata con protocollo del 23/02/2015 e ratificato con l. n. 69 il 4/05/2016;2) la cooperazione spontanea;
3) lo scambio automatico di informazioni finanziarie.
Ricapitolando, i contribuenti italiani,
che posseggono attività finanziarie ed adempiono in fase di dichiarazione e
monitoraggio fiscale ai rispettivi obblighi, sono già evidentemente individuati
dall’amministrazione fiscale per eventuale assoggettamento ad un’ipotetica
imposta straordinaria. Coloro che invece continuano a possedere asset mobiliari
evitando di denunciare gli stessi all’amministrazione finanziaria italiana,
dovranno fare i conti con le recenti normative innanzi descritte.
Legittimamente quindi si potranno aprire rapporti bancari e trasferire il
proprio patrimonio mobiliare in Svizzera ma è bene sapere che attualmente il
quadro operativo degli intermediari bancari dei nostri vicini di casa è mutato.
In conclusione trasferire i capitali legittimamente
presso banche estere, al fine di proteggerli dal rischio Paese è scelta
razionale o emotiva? Prescindendo da qualunque altra valutazione di ordine
economico – finanziario (si pensi a un cambio radicale di vita con
trasferimento personale all’estero, o al possesso di asset mediante società
fiduciaria…), ricordo che spesso (o forse è il caso di dire sempre) gli
investitori non decidono secondo i principi della teoria della razionalità
economica e pertanto l’eventuale decisione di trasferire i propri asset
mobiliari verso lidi stranieri per evitare il suddetto rischio, sembrerebbe
sfuggire a un’analisi ponderata dei reali rischi e diviene fenomeno
comprensibile attraverso gli schemi tipici della behavioral finance.”
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